La musica come spazio d’accoglimento, spazio predisposto a qualcosa d’indicibile, che non può essere detto in parole, e tuttavia occorre dire. Marco definisce “spazi nessunali del presentimento” queste partiture, nelle quali ogni suono è un evento. Il senso di questa interpretazione della musica, che sottende i suoi esperimenti, è nel rifiuto di ogni forma di linguaggio costituito. “Babele della spoliazione”, o piuttosto assoluta purezza di una spoliazione che significa radicale mutamento del nostro essere-al-mondo.
La sua esigenza – ciò che lo spinge a far musica – è recuperare l’oscurità, l’ineffabilità dei suoni, senza disperderla nella chiarificazione musicale. Il che vuol dire sottrarre i suoni alle sintassi di discorsi musicali troppo rigidi, a regole, ideologie del suono. Vuol dire andare verso il “suono-evento” come esperienza misteriosa, che ci apre a ciò che il troppo dei suoni impedisce di cogliere. Il suono come epifania, insomma. Epifania di ciò che non sappiamo, o forse sappiamo, e che in ogni caso non deve né può essere detto. Se fosse detto troppo chiaramente, non sarebbe più il suono-evento. Sarebbe un discorso, e di discorsi ce ne sono fin troppi.
… da questa musica – fatta di eventi impercettibili, di atmosfere impalpabili, d’improvvise illuminazioni – si può “filtrare” come diceva Schoenberg, un diverso modo di pensare, e anche di guardare la realtà. Un atteggiamento che dalla musica nasce, e che vuol dire non cercare immediate soluzioni, o risposte alle domande che ci verrebbero dall’arte, e dunque anche dalla musica, ma una capacità di attesa: imparare a sostare nell’ascolto come un sostare nella domanda.
Suoni della diaspora, dice Marco: Suoni “esiliati dalla logica sistemico-funzionale della musica”. Egli ci conduce a sperimentare come la musica – proprio per la sua natura impalpabile, avvolgente e dissolvente – abbia un senso che non si può spiegare con categorie razionali. Un’esperienza musicale che sappia rendere i “suoni della diaspora” smonta tutti i nostri parametri di riferimento musicologici e di tipo cognitivo. Dissolve, cioè, tutte le pretese conoscitive e appropriative della ragione per condurre su vie che ogni giorno saranno diverse.
Mentre ci seduce e c’incanta come una magia, la musica di Marco ci consegna a quel fondo imprendibile, e anche misterioso, che caratterizza ogni musica che sia davvero tale. E ciò è quanto, nella musica di Marco, “dà da pensare”. Dà da pensare che suoni possano indurre e suscitare pensieri, che ascoltando musica ci si ritrovi a pensare pensieri diversi, e cioè pensieri senza parole, e che questo pensare senza parole (suggerito e stimolato dalla musica) sia una diversa forma del pensiero. In un testo del 1961, A voi parole, Ingeborg Bachmann sottolinea il pericolo che “la parola non farà che tirarsi dietro altre parole, la frase altre frasi. Così il mondo intende definitivamente imporsi, esser già detto. Non lo dite!”. Accettare il linguaggio comune, codificato dalle Accademie e dall’abitudine, è accettare il mondo, una certa maniera di vedere e vivere il mondo. Bisogna non dire il mondo come il mondo viene detto giorno dopo giorno, da secoli: “immagini tessute nella polvere, vuoto rotolare di sillabe, parole di morte”. Ogni mutamento reale passa attraverso un rinnovamento radicale del linguaggio, che vuol dire una maniera radicalmente nuova di vedere. Con la sua musica Marco suggerisce che per un nuovo vedere occorra chiudere gli occhi e ascoltare suoni, e le suggestioni che creano, e il mistero ch’essi fanno intuire, o intravedere.
Marco è maestro di un silenzio fatto di suoni. Maestro di un suono che sta al confine tra silenzio e parola.
Francesco Lazzari, libretto cd Sensuali eresie, 2003