L’acustica dell’anima. Per Marco Ariano

Così Novalis indica la Stimmung, la voce che è prima del linguaggio, che muove e indirizza gesto e movimento, che orienta l’essere nelle direzioni, la voce che genera, sospende o rifiuta, istintivamente, ogni atto. La voce originaria che tacita l’udito del fuori e accende l’ascolto interiore.
Ecco Marco nel suo recinto, tra i suoi oggetti, fitta foresta inabitabile di organi silenti, in attesa dell’acustica che li animerà. L’attesa: il tempo più ricco e puro dell’esistenza, prima dell’accadimento, prima della consumazione del desiderio.
La sensazione, cioè il sesto senso che permette l’ascolto della realtà nascosta, disegna i movimenti di suono e danza di Marco. Risuona da principio nel suo corpo, con forte evidenza performativa, e si propaga nei corpi musicali degli oggetti.
Il gesto sospeso, interrotto, ritratto, infine compiuto in un tocco delicato, o negato in una sorda apnea. Nessuna premeditazione, dunque. La sorpresa è nell’orecchio di chi ascolta, negli occhi di chi guarda.
Nel gesto sospeso risuonano oggetti mancanti; tra quelli presenti si nascondono oggetti invisibili. Marco suona per metafore, i suoni sono concrezioni, frasi poetiche, sentieri sonori che si intuiscono nel gesto sospeso.
Il suono-desiderio come acustica perfetta, che gioca con la manifestazione e la negazione, col suo perdersi in un’attesa: non lasciarlo andare, tenerlo dentro di sé, ritardarne la perdita.
Una musica affettiva, sensitiva, germinante, che sente ed effonde metafore poetiche, sonorità dei territori dell’anima.

Sambati, 2018

Marco Ariano o dell’attesa

Ascoltare i lavori di Marco Ariano ci porta in una dimensione d’investigazione del suono che è un’esplorazione dell’essere e dell’esserci; un’indagine sui suoni che non appartengono al pensiero unico (musicale), all’omologazione così diffusa nel mondo della musica di ogni genere, non solo commerciale ma anche di quella che si vanta di appartenere a generi prestigiosi come il classico, il jazz, la world e la fusion etc.; il concetto stesso di genere per Ariano non ha senso, perché si è al di qua, in un’analisi della materia sonora al suo stato puro.

Le composizioni di Ariano sono uno spazio/tempo aperto, nel quale i suoni (ac)cadono, irriducibili a ogni forma e linguaggio regolamentato, stanno prima di tutte le codificazioni. I suoni di Ariano non sono ancora linguaggio ma elementi svincolati fra loro che non formano un idioma e che vivono liberamente come segnali, richiami, fremiti e gesti. Del resto, l’intendere la musica come una lingua è solo una prospettiva, legata agli studi semiologici dei decenni di metà secolo scorso, un punto di vista, fra l’altro, tortuoso perché sempre costretto a riferirsi a un’estensione metaforica. La musica, per il suo modo di essere altro, costituzionalmente differente dal linguaggio verbale, non ha alcuna necessità di essere assimilata a una lingua pragmatica, assertiva e concettuale, la musica rimanda a un pensiero che si forma con i suoni, a un pensiero in verticale che esprime ciò che il linguaggio delle parole non può dire.1

È dal 1999 che Ariano sviluppa l’idea di un teatro di eventi sonori, suoni che precipitano dai gesti e azioni che si fanno teatro della mente e del cuore. Un teatro sui generis, uno scenario delle emozioni, epifania di suoni e di trepidazioni che misteriosamente si fanno ascoltare, seguendo la performance musicale che si svolge come un rito: vi è in Ariano un aspetto mistico legato alle radici delle cose, al loro essere factum brutum, origine, principio, inizio, fondamenta (mistero e mistico hanno la stessa radice etimologica). Come dice Francesco Lazzari «La musica di Marco è una sorta di iniziazione che va compiuta in silenzio e con monastica austerità»2

Ariano va alla scoperta di quel mistero che ognuno è per se stesso, si pone in ascolto dei suoni eventuali, in attesa di quello che verrà, del destino dei suoni ch’è specchio del destino di ognuno di noi. L’adesione alla casualità professata da Cage viene declinata seguendo un’istintività e una naturalezza improvvisativa che porta Ariano a confrontarsi con le esperienze più libere del jazz; lo sguardo rivolto all’interiorità lo avvicina a Scelsi e a certi jazzisti misticheggianti, ma certo il pensiero e la prassi di Ariano sono molto primigeni.

Nell’insieme i suoni sono eccentrici, nel senso etimologico del termine ossia eccedono ogni centro, non hanno un perno di gravità ma vibrano nell’aria, senza melodie e senza metro e ritmo precisi; si presentano coagulazioni e dissolvenze impreviste, fatte di silenzio e di vibrazioni, ciò che Ariano chiama ‘mutico’ ossia quel «Qualcosa che allo stesso tempo mostra e tace, dice e nasconde, come un oracolo bizzarro che mentre suoniamo ci sottopone i suoi enigmi spingendo i nostri corpi in un divenire sonoro che ci eccede e ci rinnova».3

Nell’indagine sonora di Ariano vi è un’apertura identitaria che porta alla follia che non è stupidità ma alterazione dello status quo, stra-vaganza ovvero errare alla ricerca dell’altro, perdendo il proprio io; l’esperienza del perdersi sollecita domande.

Chi sempre va si porta dietro tutto quello che ha, anche la febbre. Va senza meta, l’unico scopo è il viaggio. Durante il tragitto inciampa in qualcosa di inatteso ed è proprio questo inciampare che apre prospettive nuove, anche a livello culturale e sociale, perché s’imbatte in volti diversi, in esperienze artistiche e spirituali differenti, in civiltà dissimili. In fondo, qual è il ruolo dell’arte in quest’epoca multiculturale e multirazziale? Facilitare l’abbraccio dei popoli. Per far questo Ariano si spoglia, opera una spoliazione esistenziale e sonora che gli permette di farsi vaso e di accogliere l’altro.

I suoni evocati da Ariano sono segreti e il segreto è cosa da svelare o da nascondere; sono un’essenza/assenza, sono latenti, nascenti. Ascoltare le performance di questo originalissimo polistrumentista è davvero un’esperienza epifanica che ci apre a suoni nuovi e a una rinnovata comprensione del nostro essere in relazione all’altro.

Renzo Cresti

1 «La musica è una riduzione rispetto al linguaggio concreto e concettuale delle parole, ma proprio questa riduzione consente un’ulteriore apertura, un’amplificazione degli aspetti emotivi e conoscitivi (non si conosce solo con la ragione ragionante ma anche con la sensibilità)», in Renzo Cresti, I linguaggi delle arti e della musica, Il Molo, Viareggio 2007, pag. 62.

2 Francesco Lazzari, note di copertina del compact-disc, Sensuali eresie.

3 Note di copertina del cd Opera Mutica.

Il colpo mancante negli esperimenti sonori di Marco Ariano

Sull’occasione della partecipazione di M. Ariano a EX.IT – Materiali fuori contesto (Albinea, 12-14 Aprile), una annotazione sul suo lavoro artistico.

E’ arduo parlare di uno dei più interessanti performer di musica d’improvvisazione, il percussionista e polistrumentista Marco Ariano (in grado di coinvolgere nel tessuto sonoro ogni congegno e oggetto e gioco) senza far riferimento a parametri musicologici definiti. Non è del resto compito o competenza di chi qui – appunto – scrive da non musicologo.

Ma anche a chi analizzasse partitamente e con strumenti disciplinari affilati il lavoro di Ariano e le registrazioni audio e video di ogni sua performance, risulterebbe forse tutt’altro che agevole definire uno degli elementi di spicco delle operazioni sonore che le improvvisazioni mettono in atto. Ossia l’elemento della mancanza, della latenza annunciata,del negativo del suono.

E, meglio ancora: non di mancanze date si tratta, ma di assenze nel loro formarsi: ossia latenze in corso, colte e anzi proprio coglibili esclusivamente nel perimetro contingente della loro formazione, del loro verificarsi entro il momentum e perimetro o cronotopo dell’improvvisazione.

Già all’ascolto semplice e senza immagini dei lavori di Ariano sono percettibili lacune, assenze e spaziature consistenti, incavi acustici, vuoti, frasi non pronunciate, tratti tolti, nel reticolato sonoro. Ma è alla visione delle improvvisazioni che tutto diventa evidente, chiarissimo.

In Ariano una quantità notevole di lavoro strutturale (e: sgretolante strutture) consiste nell’annuncio, nel gesto che pone, imposta un colpo, un fendente di bacchetta, che poi viene però trattenuto, ritratto improvvisamente: un colpo mancato. Anzi, in progress, mancante. non escluso ‘per progetto’, ma sottratto nel suo prodursi, sottratto nel preciso istante in cui pure ne viene annunciata e quasi disegnata la necessità – dal moto delle braccia, dall’avviarsi o addirittura avventarsi del gesto.

Questa mancanza e anzi questo mancare costituisce non un’occorrenza o azzardo occasionale nel ritmo già scaleno e nemico di simmetrie che le percussioni giostrano, ma una costante vibratoria, silenziante: uno spazio in meno, un segno meno posto nel flowchart a volte ossessivo e violentemente complesso dei sound sheets, delle cortine sonore percussive dell’artista.

Chi qui scrive – risottolineando: da profano – non ha presente una discografia e bibliografia su eventuali altri artistiche pratichino oggi o abbiano praticato in passato questa tecnica, o simili gesti che perimetrano un’imminenza che di fatto si cancella subito. I’impressione è che tale bibliografia sia scarna o inesistente.

Ariano sembra presentarsi, dunque, come caso isolato di artista visibile/ascoltabile in una posizione, in un punto paradossale – all’incontro fra improvvisazione del ritmo e improvvisazione dell’omissione di ritmo – in cui valgono tanto l’espressione quanto l’arcuarsi fitto di un silenzio espressivo. Tanto il detto che il (delineato, stagliato) non detto, l’onda congelata il frame. O meglio: tanto il parlante che il sottraente parola. (Sempre un participio presente, e un principio di presenza, è in gioco).

In questa prassi, il detto acquista fra l’altro un rilievo nuovo, precisamente stagliato sul tappeto di latenze che i colpi mancanti generano.

Va ripetuto: non sono battute mancate, ma di fatto mancanti, che si generano nell’atto e flusso del suono emesso. Sono azioni (per quanto precipitate in singole omissioni). Sono incipit di un testo o punteggiatura-testo che prende a cancellarsi e implodere proprio a partire dai suoi cenni iniziali.

Più che di manque à l’etre si deve parlare allora di una sorta di manque au son, che per paradosso solleva afferma disegna – più ancora di quanto possano fare i suoni e colpi effettivamente battuti – un “sé”, un soggetto indefinibile, inconscio e non cristallizzato, e però stilisticamente riconoscibile: la scrittura performativa, ogni volta nuova, di Ariano.

Marco Giovenale, Il Verri, n°54, 2014

Marco Ariano, Degli Insetti

A questo geniale percussionista piacciono gli insetti. (…) Nei dodici brani del cd (che è accompagnato da un video) suona da solo e in collaborazione con dieci musicisti in ottima sintonia con lui.
Rumorismo pensoso, suoni persi ponderati, nessuna traccia cantabile, una versione originale, accattivante, laboratoriale dell’informale.

Mario Gamba, Alias – Il Manifesto, 07-07-2012

Se ora i tamburini cantano pure

Hey, Mister Tambourine man, play a song for me…”; fingiamo per un attimo di ignorare il doppio senso del dylaniano ‘Signor Tamburino’, che i tamburini, nel senso letterale, li avrebbe dovuti suonare: mentre qui ci troviamo dinanzi a dei ‘tamburini’ (e percussioni d’ogni genere, comprese quelle improprie e quelle self-made) caratterizzati da una spiccata, programmatica e dichiarata propensione al canto, ad una inedita sorta di Singspiel o di ‘recitar cantando’ che crea – ex abrupto ed ex nihilo – uno spazio drammatico prima ancora che musicale o gestuale. Sto parlando di due lavori su CD del percussionista e batterista (ma la duplice categorizzazione è riduttiva) Marco Ariano: “Sensuali eresie” (1999-2002) e “Degli insetti” (2010).Che di spazio drammatico – della sua delimitazione, definizione – si tratti, lo enuncia in apertura il seriore dei due lavori, con un coup de théatre che im/pone senza ambagi né esitazioni sia la natura extramusicale, insieme unter– ed uebermusikalische, delle composizioni, sia la materia del disco stesso: perché pronunciare eresie è atto di forza, l’atto drammatico per eccellenza, ed una eresia ‘sensuale’ è un’eresia ancor più potenziata, nella duplice accezione (che rievoca l’anfibolica sensuosness marcusiana di “Eros e civiltà”) di sensorialità ed eroticità.  Così, il gesto di Ariano, non essendo egli interessato alla dimensione musicale del suono, bensì a quella teatrale, si sottrae da subito alle gabbie del tecnicismo, del (vero o presunto) virtuosismo, cioè di tutto quanto, fingendo di favorire la creazione, in realtà molto spesso la soffoca entro schemi e patterns precostituiti: limitando l’inventiva, co-stringendo la ricerca entro ambiti e limiti congrui al presupposto tecnico stesso, che così da mezzo espressivo troppo spesso diventa restrittivo contenitore. In questo modo il lavoro di Ariano si sottrae alla logica tardocapitalistica della specializzazione, al ricatto della competizione, al narcisismo dell’esibizione di abilità. Evidente l’implicito valore contestativo nei confronti del sistema musicale e, attraverso esso, del sistema assiologico tout court.  Ma cosa c’ è, nei dischi di Ariano? Cosa “riempie” le quasi due ore che occupano complessivamente? E cosa, infine e sopratutto, trasmettono? Diciamo anzitutto che, fortunatamente, occorre sviluppare due discorsi diversi per i due CD: ché, merito tutt’altro che secondario dell’autore, non vi è traccia alcuna di ripetitività tra i due lavori. Il primo, coerentemente col titolo, è prioritariamente più astratto, più teatro di idee, impersonale; ma è anche, sensualmente, luogo e vetrina di emozioni, di fascinazioni – calde e fredde, attrattive e repulsive – sonore; e l’accesa emozionalità è la cifra complessiva del disco. Tutt’altro cast ideale per il prodotto recenziore: che vede in scena delle quasi-dramatis personae nei panni ‘degli insetti’, virtualmente presenti nel sommesso ma animato brusio di apertura. E “Degli insetti”, il titolo, si rivela subito anch’esso anfibolia: complemento di argomento ma anche partitivo: degli insetti qui si parla, ma gli insetti qui anche parlano. Qui il “brusio” caro ad Ariano (1) è quello prodotto dai protagonisti entomologici del disco, rappresentativi dall’ “entomofono”, strumentino artigianale inventato da Ariano stesso, mentre il brusio che apre e iterativamente attraversa le “Eresie” è prevalentemente un drone ostinato di synth a metà tra un wire e un didgeridoo. E qui si apre – e purtroppo rimane irrisolto – il dubbio su quanto l’autore abbia programmaticamente tenuto in considerazione, nel progettare e poi realizzare materialmente il disco, l’omonima decima sonata di Scriabin; che non condivide certo, col presente lavoro, solo il titolo, ma (fatta ovviamente la tara del secolo che li divide), la stessa concezione della ‘musica’: “Non capisco come si possa scrivere soltanto ‘musica’ adesso. Che cosa poco interessante!” (Scriabin); “La MUSICA non mi interessa!” (Ariano, in una conversazione telematica; ma si legga anche la succitata intervista). Si noti inoltre che non troppo dissimili sono i mezzi musicali che portano sia il grande compositore russo, sia il giovane musicista romano, a riferire agli insetti i loro lavori: l’ampio, quasi ossessivo uso dei trilli nel primo caso, l’insistito ticchettio dell’entomofono nel secondo.
“Sensuali eresie”, diversamente, è costituito da frammenti eterogenei tratti da eventi varii tenutisi in luoghi diversi negli anni ’99-’02, con la partecipazione di parecchi validi giovani musicisti dell’area di ricerca: David Barittoni, Roberto Bellatalia,  Francesca Cassio, Giulio Ceraldi, Giovanni Di Cosimo,  Marco Fagioli, Antonio Iasevoli, Michail Thieke, Mifue Sugiyama, Luca Venitucci. Vasto e ad ampio raggio anche il repertorio strumentale: oltre alle percussioni, all’elettronica e al piano preparato del titolare, altre elettroniche insieme a koto, synths e tubi, tromba e tampura, fonemi effettati e versi poetici (di Marcello Sambati), contrabbasso e tubi: tutti suonati in modo non convenzionale, ad empire lacerti musicali che vanno dal meno-di-un-minuto ai sei minuti buoni. Cinquanta minuti totali di emozionalità pura e continua, a tratti più distesa, a tratti violenta, sanguigna, come nel già citato incipit o nel terzultimo brano, il “Diciassette” (tutti i brani hanno per titolo esclusivamente il loro numero cardinale), o nel brevissimo brano successivo, che riecheggia l’intro di “Bitches Brew” di Davis. Attenzione: emozionalità, come categoriale disposizione dell’animo, non specifiche emozioni per così dire eterodirette e predeterminate dall’autore (“Qui, ascoltatore, devi esaltarti, qui ora rattristarti, rilassarti, caricarti, etc.”: niente di tutto questo!); e in questa tensione ritorniamo alla dimensione drammatica del lavoro di Ariano, e a quella sua capacità di usare le percussioni non solo – e anzi pochissimo – per creare ritmi (o, meno ancora, un ritmo),ma piuttosto per farle parlare, recitare, addirittura melologare: due concetti, questi, cui Ariano, nella stessa intervista, si mostra particolarmente legato. Diverso il mood sotteso al disco del 2010: che è oggetto di altra natura, progetto unitario – seppure con sei organici diversi per i diversi brani – e pertanto più uniforme, dall’andamento meno rapsodico, per certi aspetti più concentrato; sicuramente più scarno, scabro, essenziale; di certo più maturo. Qui il ‘canto’ del drumming si dispiega con maggiore evidenza e consapevolezza; ben tre brani (1,5 e 10: sarà un caso, codesta progressione?) sono affidati al solo titolare, alla batteria, percussioni, entomofono e oggetti elettroacustici (altrove anche alla diamonica): eppure non si tratta di assoli di batteria, bensì di veri e proprii pezzi musicali completi. Mr Tambourine Man suona, canta e incanta pure. Negli altri pezzi si alternano all’elettronica, alle chitarre, trombone, theremin, sax, flauti, shruti box, voce, vibrafono, musicisti quali Renato Ciunfrini, Stefano Cogolo, Roberto Fega, Filippo Giuffré, Francesco Lo Cascio, Giuseppe Lomeo, Ezio Peccheneda, Alex Pierotti, Davide Piersanti, Marta Raviglia; tutti insieme danno vita ad “una ‘scena’ (non un ‘testo’, attenzione!) caratterizzata dalla reciproca cattura/possessione di suoni e immagini” (dalle note al disco dello stesso Marco Ariano). Anche qui, dunque, la dimensione drammatica – e più ampiamente teatrale – porta l’action playing dell’autore au-de-la de la musique, verso il brusio, quell’under-noise (così più ricercato – e insieme da, suggestivamente, ricercare) che tanto marcatamente differenzia quella di Ariano da  contemporanee esperienze appunto noise-scratch o noise-glitch oriented. Il sound-ripping, insomma, sta all’action playing un po’ come il color-dripping stava all’action painting: questo portava fuori della pittura tradizionalmente intesa (oltre la forma stessa), quello porta a superare i limiti della musica tradizionalmente intesa (oltre il suo continuum temporale).  Due lavori che ‘meritano il viaggio’ e che vale davvero la pena di ascoltare e riascoltare con crescente attenzione e piacere; non resta che aspettare e sperare in future, nuove e sempre rinnovate produzioni da parte di Marco Ariano.

Francesco De Ficchy, dinamismi.wordpress.com, 18-05-2012

Il piacere di fare caos. La musica di Angelo Olivieri

Una buona notizia dalla Casa del Jazz. Un concerto di amabili ricercatori. Non si pensi al clima avant-garde ma proprio al piacere di agire musicalmente collocandosi sempre in territori (avanzati) di work in progress. Angelo Olivieri è il virtuoso-leader-pensatore della situazione. Che ha un titolo appropriato: Caos Musique, come il cd su etichetta Terre Sommerse uscito un anno fa. Trombettista e compositore, Olivieri si avvale della collaborazione di una star internazionale , il violoncellista francese Vincent Courtois, di uno strepitoso percussionista, non si sa perchè sconosciuto finora nel circuito jazzistico, Marco Ariano, e di un manipolatore elettronico, Antonio Pulli. (…)
Azul è un tema lirico, una ballad, ma la Vienna del primo ‘900 non è molto lontana. E’ proprio in brani “quieti” come questo che il linguaggio complesso, raffinato, inquietante di Marco Ariano risalta di più. Questo percussionista ha un suono di base secco e sordo, anti-effettistico per eccellenza, ottenuto usando soprattutto tom e rullante, spesso con spazzole anomale, corpose. Però non disdegna certe uscite rumoristiche, durante le quali utilizza una scatola sonora costruita da lui. Incanta con la varietà intricata e piacevole dei suoi accenti. Sa scandire e sospendere il tempo con sapienza diabolica.

Mario Gamba, Il Manifesto, 14-03-2010

Marco Ariano, Sensuali eresie

Il disco raccoglie materiali tratti da laboratori, performance, spettacoli tenuti da Marco Ariano. L’idea è quella di sviluppare un ‘teatro di eventi sonori’, con un approccio di natura interdisciplinare e matrice multimediale. Le tracce si susseguono … comprovando una forte unità progettuale, grande originalità di scrittura, interessante sviluppo dinamico e protagonismo degli strumenti percussivi e della voce, che talora traccia ‘mantra’ episodici, su sfondi ed echi sempre vocali e quasi radiofonici. Un lavoro, quindi, molto serio, ben condotto, riepilogativo. Ma che belli quei discorsi tra le pieghe: sarei curioso di ascoltare un missaggio che privilegi in piccole tracce quel magma plurimo e indistinto, infinitesimale, tormentato.

Girolamo De Simone, Konsequenz.it, 2004

Sensuali eresie

La musica come spazio d’accoglimento, spazio predisposto a qualcosa d’indicibile, che non può essere detto in parole, e tuttavia occorre dire. Marco definisce “spazi nessunali del presentimento” queste partiture, nelle quali ogni suono è un evento. Il senso di questa interpretazione della musica, che sottende i suoi esperimenti, è nel rifiuto di ogni forma di linguaggio costituito. “Babele della spoliazione”, o piuttosto assoluta purezza di una spoliazione che significa radicale mutamento del nostro essere-al-mondo.
La sua esigenza – ciò che lo spinge a far musica – è recuperare l’oscurità, l’ineffabilità dei suoni, senza disperderla nella chiarificazione musicale. Il che vuol dire sottrarre i suoni alle sintassi di discorsi musicali troppo rigidi, a regole, ideologie del suono. Vuol dire andare verso il “suono-evento” come esperienza misteriosa, che ci apre a ciò che il troppo dei suoni impedisce di cogliere. Il suono come epifania, insomma. Epifania di ciò che non sappiamo, o forse sappiamo, e che in ogni caso non deve né può essere detto. Se fosse detto troppo chiaramente, non sarebbe più il suono-evento. Sarebbe un discorso, e di discorsi ce ne sono fin troppi.
… da questa musica – fatta di eventi impercettibili, di atmosfere impalpabili, d’improvvise illuminazioni – si può “filtrare” come diceva Schoenberg, un diverso modo di pensare, e anche di guardare la realtà. Un atteggiamento che dalla musica nasce, e che vuol dire non cercare immediate soluzioni, o risposte alle domande che ci verrebbero dall’arte, e dunque anche dalla musica, ma una capacità di attesa: imparare a sostare nell’ascolto come un sostare nella domanda.
Suoni della diaspora, dice Marco: Suoni “esiliati dalla logica sistemico-funzionale della musica”. Egli ci conduce a sperimentare come la musica – proprio per la sua natura impalpabile, avvolgente e dissolvente – abbia un senso che non si può spiegare con categorie razionali. Un’esperienza musicale che sappia rendere i “suoni della diaspora”  smonta tutti i nostri parametri di riferimento musicologici e di tipo cognitivo. Dissolve, cioè, tutte le pretese conoscitive e appropriative della ragione per condurre su vie che ogni giorno saranno diverse.
Mentre ci seduce e c’incanta come una magia, la musica di Marco ci consegna a quel fondo imprendibile, e anche misterioso, che caratterizza ogni musica che sia davvero tale. E ciò è quanto, nella musica di Marco, “dà da pensare”. Dà da pensare che suoni possano indurre e suscitare pensieri, che ascoltando musica ci si ritrovi a pensare pensieri diversi, e cioè pensieri senza parole, e che questo pensare senza parole (suggerito e stimolato dalla musica) sia una diversa forma del pensiero. In un testo del 1961, A voi parole, Ingeborg Bachmann sottolinea il pericolo che “la parola non farà che tirarsi dietro altre parole, la frase altre frasi. Così il mondo intende definitivamente imporsi, esser già detto. Non lo dite!”. Accettare il linguaggio comune, codificato dalle Accademie e dall’abitudine, è accettare il mondo, una certa maniera di vedere e vivere il mondo. Bisogna non dire il mondo come il mondo viene detto giorno dopo giorno, da secoli: “immagini tessute nella polvere, vuoto rotolare di sillabe, parole di morte”. Ogni mutamento reale passa attraverso un rinnovamento radicale del linguaggio, che vuol dire una maniera radicalmente nuova di vedere. Con la sua musica Marco suggerisce che per un nuovo vedere occorra chiudere gli occhi e ascoltare suoni, e le suggestioni che creano, e il mistero ch’essi fanno intuire, o intravedere.
Marco è maestro di un silenzio fatto di suoni. Maestro di un suono che sta al confine tra silenzio e parola.

Francesco Lazzari, libretto cd Sensuali eresie, 2003