Sull’occasione della partecipazione di M. Ariano a EX.IT – Materiali fuori contesto (Albinea, 12-14 Aprile), una annotazione sul suo lavoro artistico.
E’ arduo parlare di uno dei più interessanti performer di musica d’improvvisazione, il percussionista e polistrumentista Marco Ariano (in grado di coinvolgere nel tessuto sonoro ogni congegno e oggetto e gioco) senza far riferimento a parametri musicologici definiti. Non è del resto compito o competenza di chi qui – appunto – scrive da non musicologo.
Ma anche a chi analizzasse partitamente e con strumenti disciplinari affilati il lavoro di Ariano e le registrazioni audio e video di ogni sua performance, risulterebbe forse tutt’altro che agevole definire uno degli elementi di spicco delle operazioni sonore che le improvvisazioni mettono in atto. Ossia l’elemento della mancanza, della latenza annunciata,del negativo del suono.
E, meglio ancora: non di mancanze date si tratta, ma di assenze nel loro formarsi: ossia latenze in corso, colte e anzi proprio coglibili esclusivamente nel perimetro contingente della loro formazione, del loro verificarsi entro il momentum e perimetro o cronotopo dell’improvvisazione.
Già all’ascolto semplice e senza immagini dei lavori di Ariano sono percettibili lacune, assenze e spaziature consistenti, incavi acustici, vuoti, frasi non pronunciate, tratti tolti, nel reticolato sonoro. Ma è alla visione delle improvvisazioni che tutto diventa evidente, chiarissimo.
In Ariano una quantità notevole di lavoro strutturale (e: sgretolante strutture) consiste nell’annuncio, nel gesto che pone, imposta un colpo, un fendente di bacchetta, che poi viene però trattenuto, ritratto improvvisamente: un colpo mancato. Anzi, in progress, mancante. non escluso ‘per progetto’, ma sottratto nel suo prodursi, sottratto nel preciso istante in cui pure ne viene annunciata e quasi disegnata la necessità – dal moto delle braccia, dall’avviarsi o addirittura avventarsi del gesto.
Questa mancanza e anzi questo mancare costituisce non un’occorrenza o azzardo occasionale nel ritmo già scaleno e nemico di simmetrie che le percussioni giostrano, ma una costante vibratoria, silenziante: uno spazio in meno, un segno meno posto nel flowchart a volte ossessivo e violentemente complesso dei sound sheets, delle cortine sonore percussive dell’artista.
Chi qui scrive – risottolineando: da profano – non ha presente una discografia e bibliografia su eventuali altri artistiche pratichino oggi o abbiano praticato in passato questa tecnica, o simili gesti che perimetrano un’imminenza che di fatto si cancella subito. I’impressione è che tale bibliografia sia scarna o inesistente.
Ariano sembra presentarsi, dunque, come caso isolato di artista visibile/ascoltabile in una posizione, in un punto paradossale – all’incontro fra improvvisazione del ritmo e improvvisazione dell’omissione di ritmo – in cui valgono tanto l’espressione quanto l’arcuarsi fitto di un silenzio espressivo. Tanto il detto che il (delineato, stagliato) non detto, l’onda congelata il frame. O meglio: tanto il parlante che il sottraente parola. (Sempre un participio presente, e un principio di presenza, è in gioco).
In questa prassi, il detto acquista fra l’altro un rilievo nuovo, precisamente stagliato sul tappeto di latenze che i colpi mancanti generano.
Va ripetuto: non sono battute mancate, ma di fatto mancanti, che si generano nell’atto e flusso del suono emesso. Sono azioni (per quanto precipitate in singole omissioni). Sono incipit di un testo o punteggiatura-testo che prende a cancellarsi e implodere proprio a partire dai suoi cenni iniziali.
Più che di manque à l’etre si deve parlare allora di una sorta di manque au son, che per paradosso solleva afferma disegna – più ancora di quanto possano fare i suoni e colpi effettivamente battuti – un “sé”, un soggetto indefinibile, inconscio e non cristallizzato, e però stilisticamente riconoscibile: la scrittura performativa, ogni volta nuova, di Ariano.
Marco Giovenale, Il Verri, n°54, 2014